di Luca Martelli
L’articolo si incentra sull’analisi critica della capacità o meno del “New Pact on Migration and Asylum” di garantire, in forma progressista, il “diritto ad una vita dignitosa” della persona migrante, quale diritto inviolabile dell’uomo sancito dalle più alte Carte dei diritti dell’Uomo generalmente riconosciute e ratio principale della migrantis voluntas, quale ragione che spinge l’uomo migrante a spostarsi dal luogo a cui appartiene, dalla sede principale dei suoi affetti, affari ed interessi. Nel lessico comune, la spinta a ricercare una vita migliore, nel lessico giuridico, la spinta a far valere il proprio diritto ad una “vita dignitosa”.
Ove uno Stato non sia in grado di assicurare l’eguaglianza formale dei propri Cittadini, a mezzo di interventi idonei di eguaglianza sostanziale e di politiche volte al benessere generalizzato dei propri cittadini, allora il cittadino matura l’inevitabile consapevolezza di ricercare altrove la felicità insita nel rispetto del diritto ad una vita dignitosa, generalmente riconosciuto in ambito internazionale. La violazione di tale diritto avviene sempre come conseguenza di specifici assetti decisionali dei propri governanti o dall’incapacità degli stessi di saper definire e garantire l’applicazione e la conservazione di politiche di sostegno in contesti di difficoltà generalizzata, qualunque sia la causa.
In tale contesto, è in grado il “nuovo patto” di garantire il rispetto del diritto ad una vita dignitosa del migrante, lì dove il Paese di origine ne ha determinato la violazione? Gli strumenti di cui si compone, sono in grado realmente di rendere il “nuovo patto” un esempio di approccio globale volto all’integrazione come dichiarato dalla Commissione europea?